
Gli occhi di Silvia.
Quanto è difficile capire il dolore dell’altro.
Immaginate di essere rapiti. Di venire prelevati a forza da un luogo che credete sicuro. Immaginate che i sequestratori parlino una lingua a voi sconosciuta e che urlino, urlino parole minacciose ed incomprensibili delle quali vi arriva solamente un suono terrorizzante. Immaginate che le loro teste incappucciate vi appaiano come presagi terrifici di una morte certa. Immaginate di essere strattonati, picchiati, presi a calci e che vi spingano così forte da farvi cadere. Immaginate che vi puntino dei mitra alla tempia, che vi leghino e vi imbavaglino per farvi uscire dal luogo che credete sicuro. Immaginate sia sera e che non ci sia nessuno che possa salvarvi.
Naturalmente, non so come siano andati realmente i fatti ma immaginiamo che sia questo lo scenario iniziale della tragica storia di Silvia. Voi, al suo posto, come vi sareste sentiti?
Silvia è una ragazza coraggiosa, partita dall’Italia con degli ideali nei quali, a vent’anni, ancora si riesce a credere e con il desiderio, forse ingenuo quanto legittimo a quell’età, di cambiare il mondo. Probabilmente, sa che i luoghi nei quali desidera realizzare il suo sogno non sono sicuri ma la voglia di provarci è più forte della paura e il desiderio di aiutare più ostinato di qualunque buon senso.
Parte. E, di certo, non lo fa per arruolarsi nelle milizie islamiche ma affidandosi ad una ONG che crede possa permetterle di realizzare l’unico progetto per il quale lascia la sua città: aiutare i bambini africani.
Silvia è una ragazza occidentale, moderna, in shorts e canottiera, truccata e tatuata, un sorriso radioso e la convinzione, dopo la laurea, di poter fare della sua vita qualunque cosa voglia. Parte per il Kenya ma, quando fa ritorno, non è più la stessa.
All’aeroporto di Ciampino fa scalo Aisha, un’altra Silvia, una ragazza diversa, lontana dalla ragazza ritratta nelle fotografie che precedono la sua partenza. Ha un sorriso spavaldo, lo sguardo sbarrato, i gesti trionfanti ma, soprattutto, un velo verde che ne copre il capo e che sembra aver inghiottito la ventenne occidentale partita per l’Africa.
Aisha, per i più, non è Silvia. Per il popolo del web è la convertita, l’ingrata, la cooperante incosciente che ha fatto pagare a tutti gli italiani i suoi sogni di gloria, la “terrorista” che ha sposato l’aguzzino, la traditrice della patria bandiera. E non ci si prende il tempo per riflettere, per pensare che, dietro a quel sorriso spavaldo, a quello sguardo allucinato, a quei gesti trionfanti ma, soprattutto, sotto il velo verde di quell’abito informe, Silvia c’è. Non può che esserci. E non può che essere ferita, lacerata, divisa, atterrita.
È pensabile che, dietro Aisha, dopo 18 mesi di convivenza con aguzzini sanguinari ed esaltati, non ci sia una giovane traumatizzata, scossa, sotto choc? Dopo un sequestro come quello che ha vissuto, è pensabile che Aisha sia il risultato consapevole, sereno e risolto di una scelta fatta da Silvia in totale libertà? Io credo di no. Non voglio affermare che Aisha non esista. Esiste, eccome, ed è una fortuna che ci sia. È la difesa a cui Silvia si è aggrappata per salvarsi e proteggersi. È l’espressione della sua voglia di vita a qualunque costo, del suo volersi liberare nonostante il terrore e la minaccia della morte. È la resa ai suoi aguzzini che le è valsa la libertà.
Il trauma psichico è una ferita dell’anima che stravolge nel profondo l’equilibrio delle vittime. Ne dissesta la mente. Ne cancella l’identità, trasformando la persona in un fantasma, rendendola irriconoscibile a se stessa, prima, e agli altri, poi. Il trauma è un solco profondo nella psiche che lacera, frantuma, disintegra, scomponendo la personalità in così tante parti, distanti le une dalle altre, da portare in superficie pensieri, emozioni, comportamenti caotici e contraddittori.
Il linciaggio mediatico ai danni di Aisha rivela, tristemente, quanta poca cultura psicologica ci sia nel nostro paese, pronto a condannare una ragazza, reduce da un rapimento, in virtù di un’immagine che non corrisponde a quella della sopravvissuta che ci si attendeva. Forse, se in Italia avesse fatto rientro una Silvia emaciata, rantolante e a brandelli, magari con i suoi shorts e la sua canottiera, il web le avrebbe risparmiato un ulteriore oltraggio, il trauma nel trauma.
È, dunque, doloroso constatare che, ancora oggi, le ferite fisiche raccolgono più rispetto, più consenso ed empatia delle ferite dell’anima che, non essendo osservabili ad occhio nudo, richiedono il gigantesco sforzo di dimenticarsi di se stessi per comprendere quale sia l’esperienza, la motivazione, il dolore dell’altro. Se, poi, l’altro, per salvarsi, ha dovuto coprire ferite e capo con una tunica che lo fa apparire assimilabile al nemico, ecco che, facilmente, la vittima si trasforma nel carnefice o, banalmente, in quello che se l’è andata a cercare.
Alla luce di tutto quello che è accaduto in questi giorni, mi auguro che, presto, su Silvia cali il sipario e che questa sfortunata ragazza sia restituita alla tranquillità e al silenzio di cui ha bisogno per prendersi cura di sé ed integrare, nella sua storia, la terribile vicenda che ha vissuto. L’elaborazione delle esperienze traumatiche richiede, infatti, tempo, pace ed un contesto capace di dare sostegno ed accettazione. In questo modo, ella potrà riprendere in mano la sua vita, fare scelte per sé (il nome, la religione, il paese di residenza) davvero libere e consapevoli e, soprattutto, potrà riappropriarsi del suo sorriso autentico e radioso e di quello sguardo sereno con cui, a vent’anni, si “aggredisce” fiduciosamente la vita.
Dott.ssa Francesca Rotondo
Psicologa – Psicoterapeuta